F1world incontra…Alessandro Caffi, ex pilota di Formula 1

Alessandro Caffi

Credits: Alessandro Caffi Facebook

Nel suo ottavo appuntamento, “F1World incontra”  Alessandro Caffi

Alex Caffi, originario della provincia di Brescia, è uno dei piloti italiani più poliedrici. Ha iniziato la sua carriera sulle due ruote passando dai kart, alla Categoria Regina fino ai rally, gareggiando addirittura a bordo di camion e Panda. Ha corso durante l’Era d’oro della Formula 1 portando onore al Tricolore, ottenendo risultati importanti e il rispetto dei colleghi dell’epoca. Gli anni passano ma la passione, l’amore e la determinazione che lo hanno sempre caratterizzato sono rimaste. Dopo una carriera ricca di ricordi ed emozioni, Alex non ha ancora appeso il casco al chiodo, e mai lo farà.

GLI INIZI DI UNA BRILLANTE CARRIERA

Com’è nata la sua passione per i motori? So che lei ha iniziato sulle due ruote, cosa l’ha spinta poi ad avviare una carriera sulle quattro ruote?

Nasco in una famiglia di grandi appassionati. Intorno agli anni ‘60, mio padre e i miei zii correvano anche se non a livello professionistico. Sono stati tra i precursori, nella provincia di Brescia soprattutto, del mondo delle automobili da corsa. Mio padre, insieme a mio zio, è stato il primo bresciano a disputare il rally di Montecarlo. Lui aveva una rivendita di pneumatici mentre mio zio un concessionario di automobili, quindi ho sempre respirato benzina”.

“Io ho iniziato sin da subito con il motocross. A sette anni mi hanno comprato la prima moto da cross e con quella ho iniziato a correre vicino casa. Invece, a 10 anni ho corso la mia prima gara, e da lì, passando dal motocross ai kart, alle auto non ho mai più smesso. E’ una carriera abbastanza lunga”.

Per arrivare in Formula 1 ha corso anche nelle categorie minori, che ruolo hanno avuto nella sua carriera? Pensa che al giorno d’oggi abbiano ancora lo stesso ruolo?

“Sì, le categorie formative sono fondamentali e lo sono sempre state, anche per le generazioni antecedenti alla mia. Qualunque ragazzo che abbia il sogno di diventare un giorno pilota di Formula 1 deve comunque intraprendere questo percorso: innanzitutto i kart, che sono la categoria formativa per eccellenza, poi da lì le varie altre categorie. Io all’epoca ho corso la Formula Fiat Abarth, una categoria ben vista e molto competitiva. C’era una grande selezione per accedere alla gara della domenica. Proprio per questo motivo è stata, ed è tuttora, formativa”.

“Sono categorie in cui, essendoci tanti partecipanti che si sfidano su monoposto tutte uguali, chi vinceva era un ragazzo che aveva quel qualcosa in più. Oggi la situazione è cambiata leggermente. Ci sono tante categorie e purtroppo non ci sono tantissimi partecipanti, così diventa più semplice accedere alla gara finale e la selezione viene un po’ meno. Nonostante ciò restano comunque molto importanti anche oggi”.

CAFFI RACCONTA L’ERA D’ORA DELLA FORMULA 1

Ha avuto l’occasione di correre nell’Era d’oro della Formula 1, cosa significa aver condiviso la pista con piloti che sono diventati Campioni del Mondo e leggende dell’automobilismo?

“Penso che sia stato il periodo più bello della Formula 1, un po’ perché ci ho corso io, ma credo che anche per gli appassionati sia stato un periodo molto bello. Non che adesso la Formula 1 sia meno bella, ma la tecnologia è andata avanti e ha preso il sopravvento sul lato umano, sul pilota e sul talento, diventando forse un pochino più noiosa, meno interessante e meno rischiosa. Questo è un bene, ma allo stesso tempo appiattisce i talenti e le prestazioni”.

Sono felice di aver vissuto quell’epoca. E’ stato un periodo molto difficile perché partivano al venerdì mattina per fare le pre-qualifiche. Poi dal venerdì alla domenica c’erano altre 30 vetture che si giocavano il posto in griglia. Da 36 macchine, 10 macchine tornavano a casa e di queste 26 solo in 6 prendevano i punti. Facendo un confronto con oggi salta subito all’occhio come ora sia più semplificata, al di là delle prestazioni delle vetture. Poco tempo fa un giornalista inglese ha fatto una statistica dei miei risultati; non ci avevo mai fatto caso, ma nelle mie stagioni ho ottenuti tantissimi risultati dal settimo al decimo posto, per cui ora avrei raccolto molto più punti”.

“Mi viene un po’ da ridere quando adesso sento dire che quello che è arrivato decimo ha fatto una gara eccezionale, perché ai miei tempi mi avrebbero tolto anche il saluto. Ma il mondo cambia e le regole cambiano. Io sono contento di aver vissuto quell’epoca, anche se oggi avrei fatto magari meno fatica posso dire di aver corso con piloti che hanno segnato la storia della Formula 1, e io ero lì in mezzo.”

Qualche giorno fa abbiamo ricordato la scomparsa di Ayrton Senna. Lei che ha avuto la fortuna di ammirarlo da vicino, come lo descriverebbe con tre parole? C’è un ricordo particolare legato a lui che porta nel cuore?

“Definire una persona normale, ma in questo caso eccezionale come è stata Senna, con tre parole è molto limitativo. Sicuramente è una persona che ha lasciato un grande segno. Come lui anche Gilles Villeneuve, nella nostra epoca ha vinto poco ma ha lasciato un grandissimo segno negli appassionati. Io ammiro molto questi piloti perché hanno vissuto con coraggio. Penso che la loro più grande soddisfazione sia che la gente si ricorda ancora di loro, anche dopo 20, 30 o 40 anni. Purtroppo se ne sono andati troppo presto per passare dalla storia al mito. Sono persone che hanno vissuto intensamente la loro vita, soprattutto quella professionale. Hanno lasciato a tutti noi una grande eredità”.

“I miei anni in Formula 1 li ho corsi tutti al fianco di Senna, Prost, Piquet, Mansell e tanti altri. Tutte persone dotate di una grande personalità. I ricordi con Ayrton sono tanti, il più bel ricordo, tanto per farvi capire lo spessore anche dell’uomo e non solo del pilota, è stato il saluto che è venuto a farmi al il mio primo GP in Formula 1. E’ venuto durante il briefing della mattina a darmi una pacca sulla spalla e a dirmi “benvenuto in Formula 1”, come a sancire un’investitura ufficiale”.

Nel 1991 ha assistito al debutto di Michael Schumacher, come si presentavano lui e gli altri esordienti agli occhi dei campioni?

“Io sono stato uno degli ultimi, con Häkkinen, ad essere passato dalla Formula 3 alla Formula 1. Gli atri sono tutti passati attraverso Formula 3000 o GP2. Avevo 22 anni e venivo da categorie piccole e nazionali. Ai tempi c’erano i grandi campioni e l’unica cosa che dovevi fare era cercare di lasciare il segno. Molto, ovviamente, dipendeva anche dai mezzi che avevi. Schumacher ha debuttato con una Jordan e poi è passato subito a una Benetton, per me debuttare con un Osella era diverso e difficile. Comunque mi è andata bene, mi hanno accolto bene probabilmente perché si sono accorti che sapevo cavarmela. Sono stato anche un po’ fortunato, contribuisce sempre anche questo fattore”.

DUE EPOCHE A CONFRONTO

La Formula 1 moderna è estremamente diversa da quella degli anni in cui ha corso sotto diversi aspetti. Molti giudicano quella moderna più noiosa e semplice, lei cosa ne pensa? Cosa cambierebbe della Formula 1 attuale per farla assomigliare a quella vecchia?

“E’ difficile da pensare ed è un problema che è stato sollevato da tanti, ma ormai il mondo e la tecnologia è andato avanti. Magari tra un decennio purtroppo, e sottolineo purtroppo, non parleremo nemmeno più di Formula 1 perché la Formula E l’avrà sostituita. E’ inevitabile che si vada avanti e che la tecnologia prosegua. Bisognerebbe tornare a quell’epoca, ma questo è impossibile”.

Proviamo nostalgia per un passato che non c’è più. Ma anche durante la mia epoca c’erano piloti come Lauda e Rosberg che rimpiangevano i tempi passati. L’epoca recente è sempre vista come quella “più facile o noiosa”. Ammetto però che confrontando le gare degli anni passati con quelle di adesso, ci si diverte di più con quelle vecchie. Io ho iniziato a fare questo sport, che reputo qualcosa di più di uno sport, perché si differenziava dagli altri e perché volevo differenziarmi dagli altri”.

“Mi interessavano gli sport in cui si era da soli e dove bisognava rischiare perché ti danno un’adrenalina particolare. Potrò essere preso per pazzo, ma amo la sensazione che dà il rischio. L’automobilismo è questo: togliendo il rischio si toglie l’anima stessa, altrimenti potremmo dedicarci alle gare virtuali. Quello non è più automobilismo. l’automobilismo che intendo io è quello che ho vissuto e che abbiamo visto fino alla fine dagli anni ‘90, poi è diventato un altro sport”.

A questo proposito, cosa ne pensa delle gare virtuali a cui prendono parte i piloti in questo periodo?

Può essere una cosa divertente in questo momento per via della situazione che stiamo vivendo, ma è un gioco. Non è uno sport e non è Formula 1. Già un simulatore di quelli professionali che usano anche per la Formula 1 non mi piace particolarmente. Io ho debuttato in Formula 1 senza aver fatto nemmeno un chilometro prima. Sono stato fortunato, ma una cosa del genere non capiterà mai più a nessuno”

“Al giorno d’oggi fanno pratica imparando a conoscere i circuiti. La mia generazione ha dovuto imparare le piste girando a piedi. Era tutta un’altra cosa. Non so se sia meglio o peggio, ma sono contento di aver vissuto quell’epoca. Non farei cambio per niente al mondo”.

Ha mai avuto l’occasione di guidare una vettura di Formula 1 moderna?

“No, la vettura più simile a una Formula 1 era una Formula Indy con il cambio al volante. Già questo è un grandissimo aiuto per i piloti di oggi, quindi immagino tutto il resto. Ma sinceramente non mi interesserebbe nemmeno provarla”.

CAFFI E LA UNA PASSIONE COLTIVATA  A 360°

La sua passione per i motori l’ha portata a correre in diverse categorie ottenendo sempre ottimi risultati, nonostante le diversità tra le vetture. E’ difficile cambiare stile di guida?

“Penso sia molto difficile. Nell’epoca anche precedente alla mia (anni ‘60/’70) era molto comune trovare dei piloti poliedrici che guidavano Formula 2, rally e macchine turismo. Poi siamo arrivati a una specializzazione esasperata, come lo è ancora oggi. Io sono partito e ho corso tutta la mia carriera, fino al ‘95 almeno, sempre e solo su Formula. Non ho mai fatto altro, anche perché all’epoca esisteva principalmente quello”.

“Dal ‘95, invece, fuori dalla Formula 1, ho deciso di provare quello che nessun altro ha fatto. Si trattava di provare a fare tutte le varie specialità. Sentivo spesso i soliti discorsi “da bar” tra amici in cui ognuno considerava la propria categoria come la più forte. Così ho corso su pista, rally, salite e fuoristrada. Ho cercato di farlo bene, cercando di adattarmi e di ottenere dei buoni risultati. Così, un domani, quando mi siederò a un bar ipotetico potrò essere l’unico ad avere un’esperienza completa. L’ho fatto perché ho una grande passione per questo sport e perché è stata, ed è ancora oggi, tutta la mia vita”.

Tra tutte le categorie che ha provato qual è quella che l’ha divertita di più?

Amo profondamente le cronoscalate, secondo me sono la vera gara automobilistica. Forse sono nostalgicamente legato a quell’automobilismo. Le cronoscalate fatte con le vetture formula 3000 o prototipo sono macchine molto veloci, quasi da Formula 1. Diventano delle gare molto pericolose, ma quello che ti dà in pochi minuti una gara di questo tipo non te lo dà nessun’altra esperienza. E garantisco io che le ho provate tutte. Forse si avvicina alle emozioni che può dare una qualifica di Formula 1”.

“Bisogna dare tutto in pochi minuti rischiando tutto, ma non oltre. Per me quelle sono le gare più belle, ma non ne faccio più tantissime. Ne faccio solo una, ovvero quella che considero la gara di casa in provincia di Brescia. La considero anche una gara di famiglia perché mio papà l’ha vinta nel ‘65, mentre io ne ho vinte due edizioni e ho ottenuto il record”.

E’ passato da pilota professionista al ruolo di manager con la sua scuderia. Come ci si sente ad essere “dall’altra parte”?

“E’ una bella sensazione. Ho fatto la mia ultima stagione da professionista nel 2013, in Brasile. Allo scadere dei 50 anni ho pensato a cosa avrei voluto fare nel futuro. Ho capito che quello che mi piace sono le automobili da corsa. Ho cercato di capire come poter restare nell’ambiente e per questo è nato il mio team. Tutti mi hanno preso per pazzo perché erano momenti abbastanza difficili, ma sono contento”.

“Ho il mio team da quattro anni ormai in Nascar e mi piace. Come un calciatore può diventare allenatore, anch’io ho voluto mettermi dall’altra parte. Quello che prima trovavo pronto, ora lo devo preparare ai miei piloti. Ho conosciuto l’aspetto dell’organizzazione di una gara a 360° con una sfida maggiore, perché non è mai scontato che un buon pilota possa essere anche un bravissimo team manager. E’ stata una piccola sfida con me stesso e sono soddisfatto del risultato ottenuto fino ad ora”.

La sua è una carriera iniziata sin da piccolo che va avanti ancora oggi con molta passione e dedizione. Avrà collezionato moltissimi ricordi ed emozioni, quali sceglierebbe per ripercorrerla?

“E’ un po’ difficile. Ho iniziato a gareggiare da quando ho 10 anni e ho 46 anni di gare alle spalle tra motocross, kart e automobili. Sicuramente ci sono degli episodi particolari che porterò con me per sempre come il primo GP di Formula 1, la prima vittoria in Formula 3 ottenuta a Monza che ritenevo un po’ la pista di casa all’epoca, oppure il quarto posto a Montecarlo o il terzo posto in griglia in Ungheria. Sono tanti episodi, legati a belle immagini e bei ricordi”.

“Sicuramente sarebbe potuto essere qualcosa di più. Fra tanti bei ricordi, l’unico rammarico resta forse il ‘91. Alla Footwork avevamo tutte le carte in regola per fare il salto di qualità e io e Michele Alboreto (suo compagno di squadra) diventare i nuovi Lauda e Prost degli anni Novanta. Purtroppo non è andata così, però penso che sia meglio guardare sempre il bicchiere mezzo pieno. Quando guardo indietro vedo tanti amici e tanti piloti che non sono nemmeno riusciti ad arrivare in Formula 1 pur avendone le capacità e le possibilità. Sono contento di quello che ho fatto”.