Sicurezza in pista: barriere e vie di fuga in Formula 1

Sicurezza in pista: barriere e vie di fuga in Formula 1

Credits: Pirelli Press Area

La sicurezza in pista in Formula 1: quando l’incolumità dei piloti e dei tifosi è la prima necessità

Quello della sicurezza è un tema molto delicato nella Massima Serie. Agli albori della Formula 1 infatti l’incolumità di piloti e spettatori era un aspetto secondario per gli organizzatori dei GP. Sin dai primi anni 50 fino alla fine del ventesimo secolo la pista ha sempre reclamato un alto numero di vite. Se il rapporto incidenti/vittime è via via andato a diminuire lo si deve alla ricerca tecnologica che ha permesso di sviluppare metodi innovativi di tutela e prevenzione. Oggi si fa un gran parlare della sicurezza in pista, ma sembra che molti ignorino quali siano le componenti ultime che rendono un tracciato “sicuro”.

Mentre sui social si dibatte sull’utilità o meno dei track limits e sul fascino dei “vecchi” metodi, grazie allo sforzo di progettisti, ingegneri e personale medico i piloti possono uscire quasi illesi da impatti che fino ad inizio millennio ne avrebbero decretato la prematura fine. Questo sforzo si traduce sia in elementi interni (quali Halo, collare HANS, caschi e così via) che in elementi esterni, quindi vie di fuga meglio progettate, barriere all’avanguardia e standard molto più alti per le infrastrutture sanitarie.

All’alba della Formula 1 la sicurezza era un elemento accessorio per piloti e pubblico. Quasi come se il mondo fosse impreparato a gestire i bolidi più veloci di sempre, gli accorgimenti per l’incolumità personale erano ridotti all’osso. Prima della nascita dei circuiti permanenti, i tracciati della Massima Serie erano ricavati chiudendo al traffico strade ordinarie, quindi le barriere d’arresto per le monoposto dovevano essere caratterizzate dalla facilità di disposizione e riposizionamento. Soluzione a tale necessità era offerta da balle di fieno accatastate nei punti considerati più critici o disposte in modo tale da delineare una curva.

DAI BALLARD DI FIENO AL TECPRO

Se l’idea di tutelare i piloti stava iniziando a prendere piede, nulla ancora si era mosso in direzione degli attendenti alle corse. Una monoposto fuori controllo raramente trovava impedimenti nella strada tra sé e i rudimentali “stand” o ai prati dove erano disposti gli spettatori. Un tremendo esempio di questi disastri fu l’incidente mortale di Wolfgang von Trips. Nel 1961 il tedesco perse la vita a Monza a seguito di un off-road e con lui altri 15 sfortunati tifosi. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 sui circuiti iniziarono a comparire le prime rudimentali barriere, costituite da reti e lamiere, non esenti però da punti deboli.

Data la particolare posizione molto ribassata del pilota e le alte velocità delle vetture, molto spesso le barriere non fermavano la vettura ma il pilota, come successo nel caso dello sfortunato Helmuth Koinigg. Le reti, al contrario, avviluppavano completamente la monoposto, rendendo alcune volte impossibile l’azione tempestiva dei Marshall. Da metà degli anni ’80 hanno iniziato a prendere piede sistemi misti di protezione. Muretti di cemento erano disposti nei rettilinei per attutire gli impatti laterali. Guard rail protetti da strati di pneumatici collegati tra loro e talvolta riempiti d’acqua venivano invece distribuiti lungo le curve più pericolose.

Dalla seconda metà degli anni 2000 le gomme hanno via via lasciato il posto all’ultimo ritrovato della tecnologia, il TecPro. Questo strumento sempre più diffuso nei circuiti di tutto il mondo è composto da elementi modulari in cui si alternano strati di schiuma e lastre metalliche, adattabili a qualsiasi situazione ed efficaci in moltissimi episodi. Eppure, anch’essi presentano alcune criticità. Se colpiti con un certo angolo ad esempio, le monoposto sono molto inclini ad infilarcisi sotto, di fatto oltrepassandoli. Questa la dinamica dell’incidente occorso durante lo scorso GP di Russia di Formula 2 tra Jack Aitken e Luca Ghiotto.

MARE O MONTAGNA? SABBIA ED ERBA A BORDOPISTA

Nonostante gli standard di sicurezza siano sempre più elevati e le barriere poste a bordopista più efficienti, molto spesso gli urti avvengono a velocità elevate. Fermare in pochi metri una monoposto che viaggia a 300 km/h non è una passeggiata, e a farne le spese sono soprattutto i piloti. D’altronde, decelerazioni improvvise superiori a 3-4 G lasciano quantomeno tramortiti. L’ideale dunque sarebbe quello di rallentare una vettura prima dell’inevitabile impatto con le barriere, o, se possibile, evitare tale evenienza per il sollievo dei meccanici ai box. Ci vengono quindi in soccorso le tante discusse vie di fuga.

Alle origini della Classe Regina il bordo pista era delineato semplicemente da un prato, molto spesso con degli alberi poco lontani. L’erba però non era (ed è) in grado di arrestare una monoposto e, anzi, da bagnata tende di fatto ad annullare il proprio coefficiente d’attrito dinamico, condannando in ultima istanza il pilota al contatto con le barriere. Una soluzione venne trovata inserendo le famose “gravel trap”, o banchi di sabbia. Per via della disposizione “a strati” dei granelli che le compongono, più di una volta esse si sono dimostrate inefficaci. Irregolarità sulla superficie inoltre aumentando le probabilità di ribaltamento.

Negli ultimi anni le vie di fuga hanno subito delle rapide mutazioni che in ultima analisi le hanno portate a diventare delle vere e proprie estensioni della pista. Dapprima, ai bordi esterni dei cordoli sono stati aggiunti strati di erba sintetica o pavimentazione leggermente più abrasiva. Successivamente questi strati sono stati nella maggior parte dei casi rimpiazzati dal sempre utile bitume, creando superfici ottimali per garantire il grip degli pneumatici. Senza scomodare le avveniristiche soluzioni adottate in quel di Yas Marina o al Paul Ricard, le vie di fuga sono diventate un alleato fondamentale per i piloti, almeno quelle sprovviste di sensori intelligenti.