Sport e tanta vita privata: ecco “Schumacher” su Netflix
L’importanza della famiglia, un figlio che sogna di poter parlare col padre, una moglie devota e inebriata da quell’uomo così premuroso e risoluto. Ci sono i ruggiti ferraristi, i Mondiali con Briatore e gli esordi con la Jordan, ma tanta intimità nel docu-film di Netflix dedicato al campione tedesco
“Ho anche pensato se fosse davvero il caso di continuare o meno”. Dovessimo dare un titolo diverso dall’originale, ossia “Schumacher”, il docu-film sul campione tedesco disponibile su Netflix dal 15 settembre, potremmo scegliere questa frase. E’ quella che Michael pronuncia davanti alle telecamere in una intervista di repertorio, raccontando del suo stato d’animo dopo l’incidente che costò la vita ad Ayrton Senna.
Le certezze che d’improvviso crollano, la paura nel fare ciò che da cinque anni gli riesce benissimo: guidare. C’è molta introspezione, sentimento e vita privata, rispetto all’aspetto sportivo, nel prodotto confezionato da ben tre registi: Vanessa Nocker, Hanns-Bruno Kammertöns e Michael Wech. La prima, in particolare, ha rivelato il motivo di questa discrepanza tra carriera e vita privata: “Corinna è stato il nostro più grande sostegno, lei per prima ha voluto un film autentico, che mostrasse Michael per come è fatto, con i suoi alti e bassi, senza addolcire niente. E’ stata straordinaria, è una donna che rappresenta un modello. Ci ha molto colpiti”.
DA KERPEN AL MONDIALE
Per carità, non fraintendeteci. Tanto aspetto agonistico, eccome. Altrimenti come sarebbe possibile raccontare un 7 volte campione del mondo? Sin dai kart, ragazzone già con la testa sulle spalle che sognava di primeggiare sul kartodromo di casa, a Kerpen, di proprietà della famiglia. Poi l’esordio in Jordan, i primi titoli con la Benetton. “Schumacher” pare una rincorsa, con un anno su tutti: il 2000. Un punto di arrivo del docu-film, il vero apogeo della carriera del tedesco, quando riesce a riportare l’iride a Maranello dopo 21 anni. Pare che l’opera si basi tutto su questo: se ne percepisce la sofferenza, il lungo cammino verso una luce rossa, come le vetture di Maranello.
Oltre a Corinna, in questo cammino è fondamentale Willi Weber, il manager che per primo lo fa affacciare al mondo del professionismo prendendolo come pilota nella sua WTS di Formula 3 alla fine del 1988.
Sono quegli incontri orchestrati dal destino. Da lì arriva la Jordan (al posto di Gachot, ma la storia non viene approfondita), e poi Briatore, che chiede un incontro con l’emergente tedesco che va alla Benetton: “Non me ne resi nemmeno conto, accadde tutto in fretta”. Con la Benetton guidata dall’imprenditore italiano, vince in Belgio nel 1992 il suo primo Gran Premio. C’è Magny Cours, nello stesso anno, con Ayrton Senna che lo catechizza a dovere dopo un incidente al via in cui il brasiliano ha la peggio e deve ritirarsi. E poi Imola. “Non capivo niente: qualcuno mi diceva che Senna era in coma, altri che era morto. Arrivavano informazioni contrastanti”. Nel luglio del 1994, quando ci si appresta a correre a Silverstone, Schumacher fa il giro della pista su una macchina d’ordinanza e d’improvviso ha paura: “Guardavo ogni punto del circuito. CI avevo già corso, ma in quell’occasione mi venne da pensare ‘ecco, qui posso morire… qui anche…'”.
E FINALMENTE, IL 2000
“A un certo punto pensavamo di dover cambiare la squadra, o che fosse meglio avere Hakkinen”. Così Jean Todt descrive quel periodo di metà stagione nel 2000, quando al quinto tentativo di assalto al Mondiale la fortuna sembra ancora voltare le spalle alla Ferrari. Dal momento in cui approda in Ferrari nel 1996, si percepisce la sofferenza nel rincorrere un obbiettivo che continua a sfuggire. Esce in tutta la sua essenza la maniacalità e l’ossessione per i dettagli, certificata dalle ore piccole con altri tre meccanici per limare la vettura e i giri a Fiorano sino a quando faceva buio e i cuscinetti delle ruote erano gli unici fari nella notte.
E quel pasticcio nel 1997 con Villeneuve, quando uno chalet di montagna è per diverse settimane il rifugio suo e delle persone che ama intorno a lui. Barbecue e motoslitta, per recuperare leggerezza. Per togliere le tossine di una sportellata, a Jerez, che lo aveva turbato sino a fargli addirittura credere di non essere più quello di prima. Fino all’8 ottobre del 2000, quando l’incantesimo si spezza. “Schumacher” non racconta chissà cosa di nuovo, ma è il ritratto fedele di un uomo risoluto, sempre sicuro di sé, premuroso, geloso della sua riservatezza sino ad essere anche scontroso con qualche tifoso.
Un uomo che anche dopo essere uscito dall’abitacolo ha pensato a mantenersi vivo: il paracadutismo, lo sci. Già, lo sci. Quello che il 29 dicembre 2013 lo ferma in un eterno pit-stop dal quale non è ancora ripartito.