Horner, come Montoya mise fine alla sua carriera da pilota

Horner Alonso

© Red Bull Press Area

Essere un pilota di successo era il sogno del giovane Horner, ma c’è un momento in cui bisogna riconoscere di non avere “quel qualcosa in più”

Prima di diventare uno degli uomini più influenti della Formula 1 attuale, il sogno di Christian Horner era quello di diventare un pilota e vincere il titolo mondiale. Un’ambizione che ha rincorso nei primi anni della sua carriera, gareggiando in categorie minori e vincendo anche delle gare nella Formula Renault britannica e la Formula 3 britannica. Fino ad arrivare in Formula 3000 (l’equivalente dell’attuale Formula 2) nel 1997.

La sua carriera da pilota, però, si sarebbe conclusa di lì a poco. Ad avere un ruolo quasi profetico in tutto questo fu un particolare evento con Juan Pablo Montoya a Estoril, nel 1998. Fu allora che Horner capì di non avere quel guizzo, quell’istinto felino che distingue il pilota da tutti gli altri.

GLI INIZI DELLA CARRIERA DA PILOTA

Invitato al podcast Eff One, Horner ha rivelato di aver iniziato a nutrire dei dubbi sulle sue capacità già da qualche tempo. “Il problema è che più si va avanti più diventa difficile. C’è più concorrenza, le auto diventano più veloci e all’improvviso il pericolo diventa prevalente.” ha dichiarato. “All’improvviso, correndo in una monoposto di Formula 2 e poi guidando una Formula 1, ho pensato ‘Wow, la situazione sta diventando seria. Potresti seriamente lasciarci le penne’. C’era qualcosa in me, più dubbi e meno sicurezza, in particolare in alcune curve ad alta velocità.” ha ammesso.

A quel punto, mentre cercavo di connettere piede e cervello, c’era un ammortizzatore in mezzo. Nelle curve a bassa velocità potresti essere veloce come chiunque altro, perché c’è meno rischio. Ma quando percorri il rettilineo a oltre duecento miglia all’ora e arrivi alla curva, tutti ti dicono ‘Lo sai com’è’. Ma il tuo cervello sta elaborando e dice ‘Non mi sembra così scontato‘, mentre il tuo cuore dice ‘No, forza, andiamo avanti‘”.

Il mio cervello spesso prevaleva sul cuore e diceva ‘Andiamo, qui mettiamo un limite’. E alla fine ci arrivi.” ha ammesso. “I piloti davvero bravi hanno semplicemente un’attitudine naturale per tutto questo, una completa fiducia interiore in se stessi, una sensazione della macchina, e non devono costruirsi su di essa. Vanno e lo fanno e basta“.

HORNER E L’INCONTRO CON MONTOYA: “NON POTEVO FARLO”

Con i dubbi e le insicurezze crescenti dentro di lui, Horner vive un episodio rivelatore in pista. “Ho vissuto questo momento molto significativo quando correvo nella Formula 3000 e c’era Juan Pablo Montoya. Eravamo ad Estoril prima della stagione, e c’era un lungo rettilineo. E’ una pista vecchia scuola e aveva due curve a destra molto veloci, con una barriera a circa venti metri dalla pista. Era una curva da sesta marcia, quindi parliamo di 160/170 miglia orarie.” racconta Horner.

Sto uscendo dalla pit lane e Montoya mi passa davanti. Lui inizia a svoltare a destra e riesco a vedere la monoposto muoversi e ballare e il cerchio che sembra quasi sfondare il fianco della vettura. Lui e lo pneumatico erano in direzioni opposte. E aveva il piede destro assolutamente piantato. A quel punto sapevo semplicemente ‘Non posso farlo. Non posso’“.

“Non potevo avere la sicurezza, l’abilità o il coraggio di impegnarmi in quella curva come ha fatto lui. Quindi, prima di quella stagione, fui onesto con me stesso nel dire ‘Non proverò nemmeno a ritagliarmi una carriera in un’altra categoria‘. Dovevo fare qualcosa, perché non volevo andare all’università, e avevo bisogno di guadagnarmi da vivere“. Il resto, è la storia che ha portato Christian Horner a essere il team principal di successo che conosciamo oggi.