Prost ricorda Senna: «Credevo si credesse immortale. La sua morte fa ancora male»
Ayrton Senna e Alain Prost, due nomi che camminano parallelamente nell’emisfero degli appassionati. I due rivali predestinatai, una rivalità contraddistinta da duelli all’ultimo sangue. Ciascuno dei due conosceva la grandezza dell’altro e vinto quel primo alloro iridato, lo scopo di Ayrton era battere Alain, nonostante il francese appartenesse a un’altra generazione e quindi si sarebbe ritirato dall’attività agonistica prima del brasiliano. Quando ci appropinquiamo al ventennale dalla morte di Senna, il quattro volte iridato francese è stato intervistato dal quotidiano La Stampa, confidando come la morte di Ayrton rappresenti ancora un fatto doloroso, nonostante la rivalità in pista, nonostante i battibecchi: «Quando sentii l’ufficialità della morte di Senna fu come se avessi lasciato la Formula 1 un’altra volta, fu davvero qualcosa di incredibile ed è un attimo al quale penso in più di un’occasione – ha sottolineato il francese – È stupido dirlo, ma mi chiedo qualche volta cosa avrebbe fatto Senna una volta appeso il casco al chiodo. Credo che sarebbe tornato a vivere in Brasile. È stata una perdita irreparabile, che fa ancora male. Non si può dimenticare».
Nonostante il brasiliano si rese protagonisti di molti incidenti, alcuni dei quali anche pericolosi, quello fatale, di Imola, fu causato da un guasto meccanico, la rottura del piantone dello sterzo della sua vettura, un ingrato scherzo del destino per il pilota che, più degli altri, prendeva rischi sull’asfalto: «Inizialmente pensai che si fosse rotta una sospensione. Col senno di poi, se io fossi stato al posto di Damon Hill che guidava l’altra Williams, non avrei preso parte alla gara – ha affermato Prost – La Formula 1 stava vivendo un brutto momento in quegli anni, la Federazione e i tecnici pensavano soltanto allo spettacolo e agli affari e si dimenticavano della sicurezza». Ha continuato il francese: «Qualche volta avevo pensato che credesse di essere immortale, invulnerabile. Io cercavo sempre di ragionare, di cogliere le opportunità. Ayrton era un pilota che se vedeva aprirsi uno spazio di due metri e la sua macchina ci passava per un centimetro, si buttava dentro».
Eppure, nonostante l’idea dell’immaginario collettivo, c’era grande stima e rispetto tra i due rivali, troppo diversi per amarsi l’un l’altro: «Ayrton aveva dimostrato sin dal suo debutto di essere molto veloce ma ebbi modo di conoscerlo meglio quando arrivò in McLaren nel 1988. Era meticoloso: nulla gli sfuggiva, a livello di aerodinamica, di motore e di gomme». Poi quell’ultimo gesto, quella pace andata in mondo visione sul podio del Gran Premio d’Australia ad Adelaide nel 1993, come un presagio: «Lui sapeva che mi sarei ritirato. E mi sorprese con quel gesto – ha sottolineato il Professore – Credo che avesse capito di aver perso un rivale, ma anche il pilota che più lo aveva costretto a dare sempre il massimo».