Paolo Ciccarone: “La Formula 1 si sta snaturando”

Paolo Ciccarone

Foto: Paolo Ciccarone FB

Una passione che ha radici lontane e che è stata coltivata in tutti i suoi aspetti, tanto da permettergli di fare suo il detto: “Scegli un lavoro che ami e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua”

Paolo Ciccarone è un giornalista professionista da anni coinvolto nel racconto del Motorsport. Un percorso lungo, il suo, che lo ha portato a esplorare tutte le sfaccettature della Formula 1 e delle categorie minori e che ancora oggi lo appassiona facendolo divertire. F1World ha deciso di intervistarlo per cogliere le opinioni sulla Formula 1 attuale da parte di chi questo sport lo vive da anni. Una chiacchierata che ha toccato vari argomenti permettendo alla nostra redazione di misurarsi con diversi spunti di riflessione.

Iniziamo con uno degli argomenti “caldi” dell’ultimo periodo, ossia il rapporto tra Vettel e Leclerc. Secondo lei c’è la possibilità per Charles di conquistare i galloni di caposquadra nonostante condivida il box con un quattro volte iridato?

“Innanzitutto diventi campione se sei veloce e vinci. In secondo luogo, se sei tale devi dimostrarti più veloce di tutti, anche del tuo compagno di squadra. Se Leclerc riesce a conciliare queste prerogative, ovvero essere veloce, disporre di una macchina competitiva e totalizzare più punti di Vettel, allora non vedo ostacoli sul suo cammino. Considerando che le squadre privilegiano il pilota più veloce, se Charles dimostra di possedere queste qualità la sua promozione a caposquadra sarà un processo naturale”.

Riguardo agli ordini di scuderia in seno alla Ferrari, qual è la sua posizione? Sembra che a Maranello stabilire gerarchie interne tra i piloti sia un fatto assodato…

“Direi che in ogni squadra funziona così, non solo in Ferrari. Su questo va però precisato che noi ci siamo fatti un’idea solo in base ai team radio diffusi dalla TV, quindi non siamo al corrente di accordi pregressi e altri aspetti legati al dietro le quinte. Questo può portarci ad avere una visione distorta o perlomeno condizionata in una certa misura sul reale clima in Ferrari. A giudicare da quanto mandato in onda, sembra che a Maranello non tutti gli aspetti della gestione dei piloti fossero stati definiti a fondo, quindi non sappiamo esattamente chi ha fatto il furbetto. Gli esempi dalla Formula 1 del passato dimostrano che spesso gli accordi presi a tavolino si scontrano con il loro mancato rispetto nella realtà dei fatti”. 

“Pensiamo a Imola 1982, quando Villeneuve e Pironi dovevano soltanto fare uno show e poi uno beffò l’altro. Ancora, pensiamo a Senna e Prost: in un Gran Premio (Imola 1989) avevano concordato di non ostacolarsi alla prima curva; peccato che in quell’occasione ci furono due partenze. Senna disse chiaramente a Prost di aver rispettato il patto nella prima partenza. Poi alla seconda… tana libera tutti. Si gioca sempre su questa zona grigia nei rapporti tra compagni di squadra, dimenticandosi che alla fine sono in pista per vincere. E per arrivare primo, sei solo contro tutti”.

Rimanendo alla Ferrari, secondo lei il ripetuto cambio di Team Principal rappresenta davvero un beneficio o il team dovrebbe focalizzarsi maggiormente su altri aspetti?

“Il problema è che per esprimere il meglio, ad esempio, in campo tecnico, è necessario qualcuno che accentri nella sua figura un forte potere. I cambiamenti repentini del team manager non giovano all’armonia interna, perché in Formula 1 serve stabilità. La gente non ha idea di quanto occorra per consolidare l’affidabilità della vettura: ci vogliono anni. Stesso discorso per raggiungere determinate prestazioni. Non puoi sostituire gli uomini chiave con troppa frequenza”.

“Non è come nel calcio dove cambi l’allenatore e lo schema di gioco. In Formula 1 sono le leggi della meccanica e della fisica a determinare il tempo di sviluppo di certi elementi. L’errore più grave consiste proprio nel voler cambiare ogni tre per due team manager. Come se cambiando l’allenatore migliorasse il risultato. La Ferrari secondo me ha gli elementi per farcela, dispone di persone con talento. Ma c’è bisogno di tempo. Mercedes ha dominato negli ultimi sei anni, però in quelli precedenti ha recitato un ruolo subalterno. Stesso discorso per la Red Bull“.

Ha appena menzionato la Mercedes: al netto di una vettura capace di monopolizzare sei campionati di fila, Hamilton è davvero il pilota più completo attualmente?

“Sì, per arrivare a questo ci vuole talento e lui ne dispone in quantità. Ha imparato a consolidare una visione di gara e a gestire efficacemente ogni aspetto. Vanta una personalità forte, da leader: si è trovato in una squadra che, oltre a garantirgli la vettura migliore, gli consente pure di esprimersi come persona. Non gli hanno imposto stili di vita o determinate regole. In più lui sa perfettamente che quando la squadra delibera un secondo pit stop, come in Giappone, questo va nell’interesse generale. Fa tutto parte dell’ingranaggio e pertanto Lewis deve rispettare quanto gli viene richiesto“.

“Mettendo tutto insieme, emerge il quadro di un pilota veloce, maturo, completo. Uno che, pur avendo già vinto tanto, continua ad avere fame di successi, mettendosi in discussione. Il fulcro è trovare la motivazione. Ad esempio, quando Rosberg è arrivato a vincere un mondiale, si è sentito come svuotato nelle sue velleità. Lewis invece è arrivato a sei titoli ed è ancora lì. Per questo merita il massimo rispetto”.

Abbiamo parlato poco fa della Formula 1 del passato: lei sta riscontrando differenze di tipo tecnologico e a livello di mentalità rispetto a quella attuale?

“Nell’arco degli ultimi trent’anni, in Formula 1 ho percepito un’evoluzione vertiginosa sotto tutti i punti di vista. Trent’anni fa le macchine erano molto più condizionate dalla meccanica, mentre l’aerodinamica iniziava a prendere il sopravvento. Poi è arrivata l’era dell’elettronica e questo ha comportato un’ulteriore evoluzione della componente tecnica. Adesso l’alchimia tecnica tra motori ibridi, elettronica e aerodinamica è diventata molto più complessa. Lo stesso atteggiamento dei piloti nel corso degli anni è cambiato. Una volta, dopo le prove e i meeting, con lo stesso pilota si andava fuori a cena e si poteva scherzare. Adesso non è più possibile impostare un rapporto del genere, per due motivi fondamentali”.

“Innanzitutto, negli anni passati eravamo più o meno coetanei dei piloti, quindi riuscivamo a capirci. Oggi invece la nuova generazione annovera dei ragazzini, pertanto diventa difficile rapportarsi con questa differenza di età. Una volta si poteva parlare direttamente con Senna, che si esprimeva con i giornalisti in italiano, portoghese e inglese. Lanciava la battutina a seconda del media che aveva davanti. Oggi, se solo dici “buongiorno” a un pilota, c’è l’addetto stampa accanto che ti avverte che non può rilasciare interviste. Una volta l’interlocutore era facilmente riconoscibile perché rappresentava la testata. Oggi, con il web, proliferano notizie talmente varie e frammentate che portano a snaturare i rapporti umani”.

Questi cambiamenti sul piano tecnologico hanno inficiato lo spettacolo della Formula 1?

“No, perché la storia di questo sport è dettata dalle medesime dinamiche. Ricordiamo nel 1992 quando Mansell con la Williams rifilava un secondo al giro alla concorrenza. Oggi, nonostante l’esasperazione tecnica, in un secondo e mezzo ci sono 15 piloti. Il gruppo si è compattato, la competitività è elevata, ma il problema grosso è che tra le prestazioni in qualifica e il ritmo di gara balla un’enorme differenza. In passato in gara si riusciva a essere più veloci del tempo di qualifica, mentre oggi su tracciati come Singapore la domenica si può andare anche 13 secondi al giro più lenti rispetto al sabato. Vuol dire che si viaggia più piano di una Formula 2… Spendere 400 o 500 milioni di euro all’anno per avere auto che vanno più lente della formula minore rappresenta una chiara incongruenza”.

Restando alle novità, per i prossimi anni sono previsti alcuni GP aggiuntivi che allungheranno il calendario. Secondo lei questo produrrà ulteriori effetti, anche deleteri, come perdita di fans o di interesse?

In Vietnam si cercherà di attirare nuovi tifosi, che magari hanno una scarsa cultura automobilistica. Mi viene in mente una frase di Enzo Ferrari che diceva: “Si muore di fame, ma si muore anche di indigestione“. Secondo me questa Formula 1 sta facendo indigestione di corse, snaturando la sua essenza. Ci si dimentica una cosa: 22 o 23 Gran Premi significano una domenica sì e una no su un anno che ne ha 52. Vuol dire che c’è gente che non vede più le famiglie, non coltivando una vita regolare. Ci si dimentica che siamo uomini, con i nostri ritmi scanditi da una vita normale. Pensiamo anche solo ad accompagnare il figlio a scuola: molti non riusciranno più a farlo. Anche per i piloti non è facile sobbarcarsi tante ore di volo, cambiare fuso orario, salire in macchina e andare forte. Secondo me questa Formula 1 rischia di implodere. Perché, si sa, il troppo stroppia”.

Da diversi anni si assiste a una mancanza di talenti italiani. Secondo lei questo a cosa va ricondotto?

“In primo luogo, mancano certe squadre: una volta c’erano 13 o 14 team in Formula 1 e più posti a disposizione. Secondo, va detto che correre in Formula 1 a quei livelli richiede notevoli esborsi economici. Nei team privati, per far fronte a certi costi, hanno dei budget tali per cui un pilota con 12 o 15 milioni di euro di dote rischia di non guidare nemmeno. Bisogna trovare una decina di milioni di euro per accaparrarsi un sedile di secondo piano e, vista la condizione economica italiana e quella delle squadre nostrane, oltre alla mancanza di sponsor, è difficile reperire certe cifreQuesto è il male principale. Un altro errore grosso è stato far sparire scuderie come la Minardi, che potevano offrire ai piloti italiani la possibilità di mettersi in luce”.

Ci piacerebbe sapere come è nata la sua passione per i motori: qual è stata l’occasione che le ha permesso di muovere i primi passi nel settore?

“È una storia che si protrae dalle scuole elementari e medie, perché il cugino di due miei compagni di classe – un tale Alberto Colombo – correva in Formula Monza. Era una categoria propedeutica e, vedendo i suoi risultati, mi si è svelato questo mondo affascinante. All’epoca – parlo di molti anni fa – per correre in macchina bisognava essere ricchi. Per cui, alla luce del fatto che in Formula 1 e nelle categorie propedeutiche la morte in pista era tutt’altro che esorcizzata, la domanda era d’obbligo: perché uno giovane, ricco, benestante deve rischiare la pelle?”.

“Era un po’ uno shock cercare di risalire alle motivazioni, così tutti quelli che scendevano in pista suscitavano un’aura di rispetto e ammirazione. Proprio dalla volontà di mantenere un contatto con questo ambiente, veniva voglia di guidare. Però per correre in macchina, come diceva un pilota come Pierpaolo Ghinzani, occorrono tre cose: l’abilità, il talento (che fa parte dell’abilità) e i soldi per correre. In più bisogna mettere a rischio la pelle. Quindi il problema era escogitare un modo per stare nell’ambiente, pur non avendo talento né soldi”.

“A questo punto mi sono inventato di fare il giornalista. Il mio è stato un percorso legato alla passione, e la passione è diventata la benzina del mio lavoro, tanto che io finora non ho mai avuto la percezione di lavorare. Ho sempre avuto la sensazione di vivere la mia passione dall’interno e soprattutto mi hanno pure pagato per divertirmi. Passa un anno, ne passano due e a distanza di trenta ti ritrovi ancora in pista a parlare di piloti e di macchine. Sono stato molto fortunato”.

Una curiosità: lei ha qualche consiglio da dispensare a tutti i ragazzi e ragazze che sognano di avvicinarsi al settore della Formula 1 e del Motorsport?

“A loro dico questo: non bisogna considerare la Formula 1 come unico punto di arrivo. Bisogna intraprendere invece un percorso di avvicinamento. Pensare di occuparsi subito di Formula 1 come giornalista può funzionare un anno o due, ma alla fine bisogna portare a casa uno stipendio. Se manca la passione, non si combina niente. Quindi la regola numero uno consiste nel coltivare una grandissima passione per il mondo che si vuole seguire. E poi imparare che non bisogna mai arrendersi. Se vivi la tua passione rendendola il fulcro della tua vita, diventa tutto più facile. Chi si ferma prima, perché magari ha dei problemi, non deve però vederla come una sconfitta”.