Credits: Chris Schotanus
Titolare dell’italianissima Dromo, Jarno Zaffelli vanta come ultima opera l’ammodernamento del circuito di Zandvoort. Il tracciato olandese è una delle due new entry del calendario 2020 ed è stato arricchito dalla costruzione di due curve sopraelevate, che tornando a essere presenti in Formula 1 dopo Indianapolis. Non solo l’Olanda, il team di Zaffelli ha recentemente lavorato a Silverstone e Sepang, oltre ad aver progettato da zero il tracciato attualmente nel calendario della Moto GP di Termas de Rio Hondo.
Da quali basi partite per studiare un nuovo layout, com’è stato il caso di Termas de Rio Hondo?
“Ci sono diversi approcci per la progettazione di un autodromo. Principalmente sono due: o si disegna solo in base al terreno che si ha o ci si mette della scientificità in mezzo. Nel primo caso si prende un foglio bianco e provi a vedere ciò che ti piace di più visto dall’alto. Chi ci mette della scientificità incomincia a lavorare dal punto di vista ingegneristico, parlando di vincoli.”
“Questi sono diversi e molteplici: il budget, la dimensione e la forma dell’area, la tipologia del terreno. Una volta che si ha quest’indicazione, un altro vincolo fondamentale è la tipologia di gare che devono essere ospitate. Questo determina le dimensioni del paddock; sono quanto di più esigente ci sia da un punto di vista di logistica all’interno di un sito di un autodromo.”
“I paddock possono essere interni o esterni al circuito, possono avere tunnel o meno, ci sono molte considerazioni che devono essere fatte. Dipende anche se ci troviamo in un circuito cittadino, in aperta campagna o la ristrutturazione di uno già esistente. Da lì si cominciano a fare delle bozze: tante bozze, tante modifiche, diciamo che è un po’ come il lavoro dello scultore. Ovviamente quando si parla di un autodromo nuovo è più facile, ma quando si comincia a lavorare su un esistente diventa più impegnativo. In questo caso il numero di questi vincoli cresce esponenzialmente.”
E per quanto riguarda la messa in sicurezza?
“In questo caso dipende dall’iter progettuale. Una volta a disposizione tutte le diverse opzioni, ogni progetto ha un calcolo della sicurezza integrato. Ogni iterazione ci rilascia diverse simulazioni di calcolo e queste sono fondamentali. Da un lato per aumentare l’efficienza dell’utilizzo dello spazio, dall’altro creare delle piste meno ovvie, mantenendo comunque la sicurezza necessaria, all’esterno della pista. La sicurezza non deve essere della pista in sé, ma di ciò che sta fuori.”
Nel disegnare un layout, quanto si segue il desiderio dei piloti e quanto l’aspetto più razionale legato alla sicurezza?
“La risposta è molto semplice, nessuno dei due. La sicurezza deve arrivare dopo che si è creato il miglior tracciato possibile. La sicurezza è una conseguenza ed è integrata all’interno del sistema progettuale. Non devi essere vincolato da questo aspetto nel disegnare una curva, se non sei vincolato da fattori esterni, come ad esempio succede in un cittadino.”
“Generalmente non guardo mai ed esorto i miei clienti a fare lo stesso, il discorso sicurezza di partenza, deve essere il punto di arrivo. Il punto di partenza deve essere lo spettatore, non solo quello che sta al di fuori della pista, ma anche chi guida. Non condivido chi crede che per essere un grande progettista di autodromi debba essere un grande pilota, non c’è niente di più falso. Guardandomi indietro, vedo Fangio (cinque volte campione del mondo tra il 1951 ed il 1957 n.d.r.) esser stato capace di realizzare disegni di piste straordinari, ma man mano che il livello tecnologico e delle auto è aumentato, è sempre stato un lavoro più da professionisti.”
“Se prendiamo in considerazione Tilke, ha si fatto delle gare, ma non è mai stato un pilota da Formula 1. Conta la sensibilità del progettista e di tutto lo staff che ci lavora. Il nostro è un lavoro collegiale dove io posso essere visto come il regista e così come in un film bisogna avere un bravo sceneggiatore, un bravo produttore, dei bravi attori. Se produciamo un buon risultato è perché abbiamo una squadra di lavoro di livello.”
Avete affrontato due grossi problemi di drenaggio, prima in Malesia e poi in Inghilterra, ci può spiegare qual era la situazione di partenza e come avete agito?
“A Sepang c’era un errore progettuale della pista. Il rettilineo posteriore e quello dei box hanno un’inclinazione verso l’esterno. L’ultima curva era invece inclinata verso l’interno e va da sé che c’è un’inclinazione che cambia, da positiva a negativa. Il progettista prima aveva deciso di fare questo cambio di inclinazione giusto nel punto di frenata. Così sia in ingresso che in uscita si creavano due rivoli d’acqua, uno a destra e uno a sinistra.”
“Avevamo due possibilità: o inclinare dal lato opposto i due rettilinei o ribaltare (l’inclinazione n.d.r.) l’ultima curva. Avevamo anche un problema di sicurezza a curva 1. L’idea è stata quella di creare una curva che permettesse di livellare la velocità massima, attraverso la diminuzione della velocità di percorrenza dell’ultima curva. Abbiamo scelto la seconda opzione. Ora l’acqua va tutta all’esterno. E così facendo abbiamo riportato indietro di tre anni gli sviluppi motore. Il pilota non riesce più ad andare veloce quanto prima nell’ultima curva. Questo fa la differenza tra i piloti e allo stesso tempo abbiamo creato un punto di sorpasso, non ovvio.”
Invece per quanto riguarda Silverstone?
“Lì la situazione era totalmente diversa. A Silverstone arrivavamo su una pista non studiata per drenare le quantità d’acqua di cui hanno bisogno Formula 1 e MotoGP, in più costruita non perfettamente nel corso degli anni. Essendo stata costruita più volte senza un vero sistema di drenaggio, ci siamo ritrovati di fatto a riprogettare Silverstone.”
“Abbiamo eliminato tutto quanto fatto in settant’anni, scavando fino alla base in cemento. Abbiamo rimodellato la forma della superficie, facendo andare le acque dov’era meglio che andassero. A Silverstone siamo arrivato all’80 / 90% di quello che avremmo voluto. Il drenaggio di quella pista è ora un progetto che si evolve, un progetto vivo.”
Zandvoort è stata la vostra ultima creazione, com’è nata l’idea di inserire due curve sopraelevate?
“Nell’agosto del 2018 c’è stata un’ispezione congiunta tra FIA e Zandvoort. Quando ancora si stava valutando se portare la Formula 1 o meno, la FIA si lamentava della presenza di un rettilineo troppo corto. A causa delle grosse limitazioni del parco naturalistico presente a Zandvoort, non era possibile fare grandi cambiamenti di layout. E’ stato il direttore dell’autodromo (niek Oude Luttikhuis n.d.r.) a proporre a Charlie Whiting, proprio in quell’incontro di Settembre, di risolvere il problema con una sopraelevata, nonostante fosse contro il regolamento.”
“A Charlie è subito piaciuta l’idea chiedendo di esplorare la possibilità di costruirla. Bisognava fare in modo che si potesse tenere aperto il DRS. A quel punto bisognava capire quanto serviva inclinata, quindi la FOM ha fatto alcuni calcoli proiettati alle vetture previste nel 2020 e 2021 e ha fatto sapere che sarebbero stati necessari minimo 15°. A quel punto ci hanno contattati chiedendoci se avevamo esperienza in questo e indicandoci i limiti di budget.”
“Dato che per costruirla avevamo già in campo skills particolari, gente esperta, macchine modificate ad-hoc …abbiamo proposto di rifare anche la curva 3 (Hugenholtz n.d.r.). Quella è diventata il vero punto di differenza della pista. Mentre la 14 ha un banking variabile tra 15° e 18°, la 3 è variabile tra 5 a 19°, portando una Sezione Aurea (Fibonacci n.d.r.) in autodromo. L’obiettivo era quello di creare linee differenti, una vera sfida per i piloti.”
Pirelli ha deciso di testare una gomma ad-hoc per il circuito di Zandvoort, secondo lei sarà necessario il suo utilizzo?
“Secondo Pirelli non era necessario. Noi avevamo già indicazioni da loro che ci sarebbero stati (dentro i limiti delle gomme attuali n.d.r.). Hanno voluto fare uno step in più verso la sicurezza, ma la previsione era di utilizzare quelle di prima; sia le simulazioni che i primi runs in pista non hanno riscontrato grandi problemi. Non c’è il rischio di ripetere Indianapolis, sviluppando meno carichi per meno tempo e con gomme diverse per filosofia costruttiva.”
Ci sono novità riguardo al possibile recupero?
“Il grande tema è il periodo. Farlo a Maggio con i tulipani in fiore è diverso rispetto a (disputarlo n.d.r.) Agosto. C’è un problema logistico maggiore, essendo località balneare. Sappiamo che la FOM vuole recuperarla, è una di quelle tappe imprescindibili, ma in questo momento è Zandvoort a porre degli interrogativi perché non è detto che si riesca a fare come vorrebbero loro.”
C’è stato un circuito che, terminati i lavori, vi ha dato maggior orgoglio, maggior soddisfazione?
“E’ difficile fare una classifica perché “la migliore che sia mai stata costruita è la prossima.” (cita Enzo Ferrari n.d.r.). Ogni volta c’è un motivo diverso per essere orgogliosi, trovando sempre difficoltà crescenti in ogni nuovo progetto. Credevano che Silverstone fosse il progetto più difficile affrontato. Abbiamo dovuto completare in sedici giorni lavori per i quali sarebbero occorsi tre mesi.”
“Arrivati a Zandvoort, abbiamo costruito due curve inclinate di 18 e 19 gradi che hanno portato un incremento ulteriore al livello di difficoltà di Silverstone. (Zandvoort n.d.r.) Lo dovremo ancora valutare con la Formula 1, ma per ora abbiamo buone sensazioni.”
Lei è stato più volte ribattezzato ‘l’Hermann Tilke italiano’: si sente o si è mai sentito in competizione con l’ingegnere tedesco?
“Sono sempre stato in competizione con Hermann. Io la vivo con un estremo rispetto visto che nessuno produrrà mai più quanto fatto da lui. E’ stato l’uomo giusto al momento giusto e per questo ho imparato moltissimo e continuerò a imparare moltissimo da lui. Per me essere definito il Tilke italiano è un grande complimento. Non lo considero un nemico e per quanto mi riguarda c’è una sanissima rivalità e grandissimo rispetto.”
“Saranno i piloti e il pubblico a decidere se uno Zandvoort sarà meglio o peggio di un Vietnam (le due new entry della stagione 2020, con la seconda progettata proprio dall’ingegnere tedesco n.d.r.). Mi piacerebbe che un giorno qualcuno dicesse che Tilke è lo Zaffelli tedesco (ride n.d.r.). Ma non ci sentiamo ancora a quei livelli lì.”
Quanto dista il vostro approccio ed in cosa?
“E’ antitetico. Il nostro approccio è completamente diverso in quanto lui tedesco e noi italiani. Noi siamo, come tutti gli italiani, meno puntigliosi e procedurali, ma molto più creativi, osiamo molto di più. Abbiamo una diversa attitudine al rischio e siamo molto più capaci di portare innovazione all’interno di questo settore, ci piace la sfida che comporta. Lui (continuando a riferirsi a Tilke n.d.r.) è molto più ingegneristico di noi.Nel senso che è estremamente ligio ai regolamenti.”
“La differenza sta nel presentare un’idea e argomentarla nel modo giusto, non basta avere un’idea, bisogna saperla realizzare. E’ quello che abbiamo fatto fino a ora, e in questo siamo diversi. Tilke ha sempre prediletto le vie di fuga in asfalto in quanto la FIA stima che queste frenino una Formula 1 più di qualsiasi altra. Questo è vero sotto alcune condizioni, come le gomme funzionanti, il pilota coscente, l’aerodinamica e le sospensioni funzionanti. Ma questa condizione ideale corrisponde solo a poco più del 25% dei casi degli ultimi anni in Formula 1.”
“A Zandvoort abbiamo combattuto il più possibile per ridurre le vie di fuga in asfalto. Ne abbiamo inserite due che ci hanno chiesto i piloti, il resto è erba e ghiaia. Quando non c’è il paragone con qualcosa di preesistente, da un certo punto di vista è anche più semplice. E’ come fare una comparativa tra una Ferrari e una Porsche, i numeri di produzione sono completamente diversi (10.000 auto/anno contro 230.000 n.d.r.), ma poi il pubblico decide quale preferisce.”